Dio Ride
Dio Ride
Avere vent’anni a Torino nel 1952 significa ballare alle feste dove suona un grammofono mentre fuori è ancora giorno, scimmiottare la noia degli esistenzialisti, scoprire l'America, fumare le Nazionali. Avere vent’anni a Torino nel 1952 significa riappacificarsi con il mondo dopo la paura della guerra, attardarsi nei caffè dopo i bombardamenti, rincorrere il superfluo dopo le privazioni e il dolore. Ma per Daniel Avigdor, ebreo, avere vent’anni a Torino nel 1952 significa anche conoscere l’angoscia dei sopravvissuti che inseguono risposte inaccessibili mentre, come recita il detto ebraico, Dio ride. Quel pomeriggio Daniel deve procurarsi una medicina perché il padre, il vecchio Leone Avigdor, un tempo temuto e inaccessibile come un dio, è in fin di vita. Occorre fare in fretta, dunque, e la farmacia abituale è chiusa. Eppure Daniel sceglie di perdersi per le strade della sua città, tra i ricordi, il presente e la vaga impressione del domani che scorre nel sangue di un ventenne in un magnifico giorno di primavera. Il peregrinare di Daniel ha i tratti di una insolita quête, una anti-ricerca che guida il protagonista lungo un itinerario apparentemente casuale di incontri e pensieri. La realtà prima della guerra, il negozio di tessuti del padre, la menzogna e l’umiliazione di una vita da topi per evitare la deportazione, poi di nuovo la scuola, gli amici, le ragazze. E la madre: bellissima, misteriosa, che Daniel ha amato pazzamente, di cui il padre è stato pazzamente geloso. Ma dove si stava recando quel pomeriggio del 1943, truccata ed elegante come sempre, quando i nazisti l’hanno portata via? Dal suo amante, probabilmente. Quando poi la verità mostra il suo volto, è un volto sconosciuto, inaspettato. Daniel non lo sa, ma sta per essere abbandonato di nuovo, e dentro a quel dolore finirà per trovare se stesso. Un racconto che commuove, una verità che si svela, un epilogo che sorprende in un romanzo che riscrive con originale vigore un tema antico e universale.